Back to life

24 Agosto 2008

Una settimana di vacanza, di quelle vere: relax, pausa dal lavoro, concentrazione su aspetti tutto sommato futili, ma che regalano pace e serenità. Avere come sola preoccupazione quella di non scottarsi troppo, tenere in mente come pensiero principale lo scegliere cosa mangiare a pranzo e a cena. L’ho fatto, e ne sono felice. Ho appena terminato una settimana del tutto nuova per me, vivendola con soddisfazione e totale disimpegno.

Non facevo vacanze da molti, molti anni. Avevo avuto dei periodi di pausa da studente o le tipiche settimane di Ferragosto a casa dei genitori negli ultimi anni, ma non vere e proprie vacanze. Quest’anno la settimana di Ferragosto l’ho trascorsa tra Veneto e Tiriolo, ma quella successiva è stata del tutto dedicata al mare: da sabato a sabato a Marina di Zambrone, località amena a due passi da Tropea che però non soffre della folla improbabile delle spiagge di quest’ultima.

Oggi sono tornato in Lombardia. Mi aspetta un ultimo quadrimestre 2008 diviso tra Bergamo e Milano, tra lavoro e vita personale, tra decisioni di lungo termine e tattiche di sopravvivenza a breve. Mi aspetta qualche soddisfazione e qualche giorno di depressione, un po’ di sfide interessanti e un po’ di situazioni fastidiose. Attendo con ansia le notizie rivoluzionarie che arriveranno, sperando abbiano segno positivo, rifiuto con forza la stasi fine a sé stessa.

Mi immagino già, tra qualche settimana, immerso nella nebbia di Milano ad aspettare un tram, nel freddo di Carnate a cercare coincidenze per treni immaginari, sotto la pioggia di Bergamo mentre torno nell’alloggio che ormai mi ospita da molti e molti mesi. Ripenserò un po’ incredulo a quanto vissuto questa settimana e mi domanderò: ma esiste un’altra vita possibile? Esiste un compromesso tra l’insopportabile vita metropolitana e la placida vita da vacanza?

Ma come parli?

7 Agosto 2008

Chi non ricorda la scena in cui Nanni Moretti in piscina urlava «Ma come parla! Le parole sono importanti»? Ecco, stamattina mi sono praticamente messo a gridarmelo da solo. Per tanti motivi diversi, tra l’altro. Primo tra tutti: lo slang consulenziale. Dopo tanti anni di questo lavoro, è normale che il tuo cervellino inizi a ragionare in maniera diversa da quella delle persone “normali”: vedi i problemi del tuo mondo, li affronti con serenità olimpica e cerchi di risolverli con metodo.

Il problema è che poi ad un certo punto inizi a traslare nella realtà anche il linguaggio strampalato che usi in ufficio (raramente) o dal Cliente (tutti i giorni). E lì, giustamente, le persone “normali” di cui sopra iniziano a dubitare delle tue capacità lessicali. A volte, infatti, usare termini settoriali del proprio lavoro nel linguaggio quotidiano fa sì che ci si renda poco comprensibili ai più. Per di più, nel mio caso, insorgono almeno altri due problemi: quello del tono di voce e quello della cadenza.

Nel primo caso, il problema è sempre quello del setto nasale deviato. Sin da piccolo parlo poco e male: poco perché il mio tono di voce sgradevole mi rende timido, male perché con tutta probabilità non ho mai imparato ad articolare a sufficienza. Ai primi tempi dell’Università mi ero convinto a contattare un logopedista, poi il budget ridotto da studente fuori sede mi aveva indotto ad evitare spese extra. La situazione, ovviamente, non è migliorata da sola col tempo.

Nel frattempo, mi sono incuriosito per il secondo problema citato sopra: quello dell’inflessione regionale della mia voce. Che, come immagineranno i lettori abituali de La Cuccia, dovrebbe essere quella di un catazarese di provincia. Non è però (solo) così. L’osservazione che mi viene fatta più spesso, infatti, è che io parli con uno strascicato accento romano. Cosa del tutto bizzarra: ho vissuto a Roma poco più di 6 mesi e (purtroppo) non avrei avuto il tempo di imparare il romanesco.

Per di più, non uso nemmeno troppi vocaboli di origine romana: dico ‘nnamo, sgamato o daje, ma tenderei a immaginare che la maggior parte degli Italiani ormai lo faccia quotidianamente. Al massimo, se ripenso allo slang quotidiano usato con amici, parenti e colleghi, potrei dire che uso più spesso espressioni di stampo vagamente campano. Immagino che ciò derivi dall’aver frequentato per tanti anni persone campane di entrambi i sessi e di tutte le estrazioni sociali.

Queste espressioni, come è facile immaginare, in Lombardia vengono percepite come “meridionali” e quindi non particolarmente sottolineate: i miei interlocutori le immaginano essere provenienti dal mio dialetto d’origine. Cosa che, invece, non è affatto vera: io un campano che parla in dialetto non lo capirei mai, mentre negli anni posso dire di aver imparato ad interpretare un mio parente catanzarese che parli in dialetto (non in maniera troppo stretta, eh).

Sebbene non abbia la minima idea di come si parli davvero il dialetto di Tiriolo o di Catanzaro, negli anni di Liceo in città ho infatti fatto un’ampia scuola di dialetto catanzarese. Ho iniziato a sentir parlare di morzeddhu e di altre specialità del luogo, ma a dire il vero ho interiorizzato pochi termini. Tra l’altro, il fatto che Tiriolo sia il crocevia dei dialetti calabresi fa sì che anche a distanza di poche decine di chilometri gli abitanti utilizzino lessici profondamente diversi, complicando la questione.

Cosa mi è rimasto? L’uso di incrisciuto per esprimere il mio stato di noia, ad esempio. Ma soprattutto, la flessibilità nel cogliere nel dialetto dei miei avi inflessioni da tutto il mondo: capisco portucallu (arancia) che deriva dal greco, tavutu (bara) che deriva dall’arabo, maruzza (chiocciola) che deriva dal latino, timpa (rupe) che deriva dall’osco, acciu (sedano) che è evidentemente di origine francese, sparagnato (risparmiato) che viene dal tedesco o suppressata (salsiccia tipica) dallo spagnolo.

Tutto ciò per dire che alla tenera età di 30 anni ho iniziato a capire la lingua parlata dalle persone che abitano nei luoghi in cui sono nato, ma non ho affatto imparato io a parlare una qualsivoglia lingua in maniera decente. Provo ad esprimermi in lingua italiana, ovviamente, ma arricchita di consulenziese, romanesco, campano, catanzarese, bergamasco (!) e di mille altri termini presi nel tempo da libri italiani o da articoli in lingua straniera (tipicamente Inglese) letti su Web e dintorni.

Alla domanda «Ma come parli?», alla fine, ho serie difficoltà a rispondere. A parte la risposta istintiva («Male!»), ogni volta questa domanda mi fa pensare che sia ora di seguire un corso di dizione. Per iniziare ad articolare bene le parole, prima di tutto, ma anche per evitare di strascicà le parole quanno nun è ir caso. L’alternativa è trasferirmi a Roma: almeno a quel punto sarei più giustificato. Certo, se imparassi ad esprimermi correttamente in Italiano sarebbe decisamente meglio…