Istinto di sopravvivenza

23 Agosto 2009

Il filo conduttore della prima parte del 2009 potrei definirlo “istinto di sopravvivenza”. Si tratta probabilmente di un fattore un po’ animalesco e poco intellettuale delle nostre vite da esseri umani eternamente di corsa, ma in qualche modo è ciò che, a posteriori, sembra aver guidato, a livello inconscio, le scelte che mi hanno permesso di sopravvivere e arrivare sin qui. Col tutore e dolorante, ma vivo.

All’inizio dell’anno ho bruscamente cambiato Progetto e in qualche modo lavoro, dopo 3 anni e mezzo dallo stesso Cliente e 2 anni e mezzo di Risorse Umane. Poco dopo è stato il momento del cambio casa e del cambio città: un trasloco “al buio”, con 13 valigie in partenza da Bergamo verso una destinazione temporanea a Milano ottenuta il giorno prima. Una sfacchinata terribile, fatta totalmente da solo e ovviamente comunque in periodo di lavoro.

Durante questi mesi in cui l’istinto di sopravvivenza mi ha tutelato dal punto di vista fisico, ha dovuto fare un bel lavoraccio anche dal punto di vista delle relazioni interpersonali. Tensioni col mio team al lavoro, dovute alle decine di giornate in giro per l’Italia; tensioni nella vita di coppia, nell’eterno tentativo di equilibrare il rapporto tra tempo al lavoro e tempo privato, con tanto di dolorosissima fine, senza appello, del rapporto stesso.

Eppure sono ancora qua, grazie all’istinto di sopravvivenza che mi ha permesso di attraversare indenne questo ottovolante. Lo stesso che, dopo la botta a Roma, mi ha fatto prendere l’aereo per raggiungere i miei genitori, che mi hanno aiutato come nessun altro avrebbe fatto. Lo stesso che citavo un anno fa di questi tempi, quasi a immaginare che sarebbero stati mesi in cui stare calmi e reagire tatticamente alle insidie del mondo.

Malattia, dignità e compassione

10 Agosto 2009

Non ero mai stato ricoverato in ospedale in età adulta. Avevo avuto qualche piccola esperienza nell’infanzia: rimangono ricordi sfumati e confusi, anche perché dell’età prescolare. Avevo vissuto solo un po’ di stazioni di pronto soccorso nella mia vita da single, dal 1997 in poi. Avevo frequentato le corsie degli ospedali catanzaresi ai tempi dei ricoveri di mia nonna, dolce e minuta anche fuori dalle mura domestiche.

Essere tornato in quegli ospedali da ricoverato mi ha fatto capire meglio dinamiche e tempi della vita quotidiana di pazienti, medici, infermieri e personaggi vari che sostengono quotidianamente le operations di una struttura complessa come solo un ospedale (specie se pubblico) può essere. Con note di merito per coloro che si adoperano affinché la convivenza sia, non potendo essere piacevole, almeno tranquilla per tutti.

I pazienti, in qualche modo, sono un nucleo separato dal resto del mondo. Sono quelli che vagano mezzi nudi o al massimo in pigiama tra dipendenti della struttura sprofondati nei loro camici e visitatori esterni, che irrompono nella vita ospedaliera anche fuori dagli orari “ufficiali” e creano scompiglio. I pazienti li attendono fiduciosi, gli addetti li guardano diffidenti e in qualche modo rassegnati dal rinnovo periodico dei pazienti.

La differenza fondamentale tra le due macro-categorie di non malati è nella gestione della dignità dei malati. Gli esterni provano ad importare nell’ospedale usi e costumi del mondo civile esterno, spesso scontrandosi con le regole interne. Gli interni invece considerano gli “ospiti” in base alla loro patologia: c’è un triage continuo anche fuori dal pronto soccorso, nei reparti in cui si viene riconosciuti in base al numero del letto.

Sono stato abbastanza fortunato, nell’incontrare esterni non troppo invadenti e interni amichevoli. Sono stato fortunato soprattutto perché, essendo riuscito a evitare l’operazione, sono passato abbastanza inosservato e quindi ho potuto conservare la dignità ad altri negata: ci si considera fortunati quando, seppure con difficoltà, ci si può alzare e andare a fare pipì nella toilette, senza nemmeno la flebo attaccata costantemente.

Una volta usciti dall’ospedale, non ci sono più gli “interni” a proteggere i malati. Le regole tornano quelle ferree del mondo e gli “esterni” ti guardano con compassione. Vedi i loro sguardi che prima cadono sui tuoi punti feriti e solo dopo incontrano i tuoi occhi. Ti senti fragile e indifeso e pensi che, in fin dei conti, era meglio andare in giro mezzo nudi in ospedale piuttosto che attirare di continuo sguardi schifati di sconosciuti.