Elena (nome fittizio, sullo scontrino ce n’è un altro) lavora da Eataly a Genova. È molto carina e così ogni volta che vado a comprare qualcosa spero ci sia lei alla cassa, che è gentile e mi riconosce (“quello che paga 3 Euro con l’American Express” penso sia la mia etichetta). Timidezza (mia) permettendo, scambiamo qualche parola sui suoi continui turni notturni o sui miei acquisti.

L’ultima volta Elena mi ha fatto molto riflettere. Stavolta io avevo una confezione di tajarin per un regalo e lei li ha accolti con un “Ooooh! I tajarin! Che buoni che devono essere” che, unito al suo sguardo triste e alle consuete lamentele sugli orari massacranti, mi ha dato da pensare sul suo rapporto con il lavoro da Eataly. Qualcosa di diverso dalla svogliatezza vista nei suoi colleghi.

Nelle sue parole c’era una sensazione di distacco dalla merce venduta, un forte senso di distanza per il fatto che la pasta da 10 € al kg fosse qualcosa di fuori portata per lo stipendio, alla faccia della volontà di Farinetti di invitare gli avventori a considerare Eataly come opzione della vita quotidiana. Anch’io mi trovo a disagio con certi prezzi folli, ma questo è un altro discorso.

Una vignetta di Dilbert

Sarei curioso di vedere Elena al posto di Dilbert nel fumetto. In generale immagino che il suo punto di fondo possa essere che in una città morente come Genova avere un lavoro è già qualcosa e quindi c’è poco da fare gli schizzinosi: va bene anche un po’ di alienazione pur di avere un contratto. Altrove è anche peggio: la storia di Eataly Bari sta diventando uno stillicidio infinito.

La cosa inquietante è che praticamente chiunque conosca oggi o è insoddisfatto del proprio lavoro, o è alienato, o entrambe le opzioni. Vedo i sessantenni stremati perché non possono andare in pensione e trovano insensato il proprio lavoro; vedo giovani ambiziosi increduli per il divario tra fatturati e stipendi; vedo donne distrutte dall’impossibilità di coniugare gravidanza e carriera.

Oggi la distanza tra proprietari e dipendenti è decisamente maggiore di quando il concetto di alienazione era stato coniato, anche perché i primi sono spesso fondi di investimento spersonalizzati o famiglie con portafogli all’estero, mentre i secondi sono proletari con laurea e master in tasca che hanno perso qualsiasi speranza di seria rappresentanza sindacale o crescita professionale.

Io sono alienato? Non troppo, anche se tremo al pensiero di (almeno) altri 35 anni di lavoro in una città che è alienante per definizione come Milano. Io sono proletario? No in termini di stipendio relativo ai miei coetanei italiani, anche se mi vien da ridere al confronto con pari età/responsabilità all’estero. Io sono sereno? Sì, ma mi sento davvero inerme rispetto a Elena e agli altri.



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