Quanto lavoro in casa

31 Dicembre 2014

La mattina di Natale i miei genitori erano indaffarati a preparare il pranzo… Io facevo piccole cosine tipo aggiustare la tavola o portare in giro per i piani vettovaglie. A un certo punto mi è caduto l’occhio sul contapassi del cellulare: in un’ora avevo fatto 1 kilometro e mezzo; dopo poche ore ero a 3 kilometri e avrò fatto un decimo dello sbattimento complessivo di mia madre, al di là delle camminate in casa. Qualche giorno dopo stavo riordinando un micro-pezzetto della libreria della mia stanza, che negli anni aveva raccolto corrispondenza cartacea, buste paghe, documenti fiscali e qualche giornale; dopo poche ore in piedi avevo la schiena distrutta. Anche in questo caso mia madre nelle stesse ore aveva fatto mille cose più di me e a fine giornata aveva passato ancora più ore in piedi. Mia madre lavora fuori casa, ma manda avanti anche la casa. Una fatica immane, immagino accentuata quando siamo qua anche mia sorella e io, ma abituale tutti i giorni dell’anno. Lei si alza prima dell’alba la mattina e cerca di resistere la sera almeno il tempo di guardare un film in TV o leggere un libro. Spesso crolla mentre lo fa e io la guardo con tenerezza e ammirazione.

Lo scorso anno avevo letto un lungo articolo di Lisa Miller che raccontava le evoluzioni della società statunitense, eternamente combattuta tra il modello “breadwinner” (classicamente in Occidente riferito all’uomo) e le coppie equilibrate in cui tutti e due i componenti lavorano fuori casa, ma svolgono anche attività in casa. Le evidenze raccolte non erano “a favore” di nessuno dei due scenari. Pensavo che solitamente io arrivo a casa (o in albergo) distrutto la sera e cerco di recuperare (male) nel weekend il minimo di manutenzione necessaria per la mia microscopica casa milanese. Se avessi una casa più seria, dovrei necessariamente ricorrere a un aiuto esterno; se avessi una famiglia che ci vive dentro, dovrei chiedere una mano alla mia compagna in entrambi gli scenari. Ci sono delle cose che mi piace fare in casa, come cucinare o fare il bucato, mentre sono un disastro in altre come lo stirare. Vorrei essere auto-sufficiente, ma oggettivamente sono piuttosto scarsino; mi domando come debba essere aggiungere alla manutenzione quotidiana della casa anche la cura dei figli. Altro che crollare a dormire la sera fuori dal letto (cosa peraltro già frequente ora).

Mi dicono le mie amiche del Nord Europa che dalle loro parti capita spesso che sia la donna a guadagnare più dell’uomo e che quindi la decisione congiunta sia comunque un modello breadwinner, ma con l’uomo a gestire casa e pargoli. A me l’idea non dispiace e non certo perché penso che sarebbe meno stressante rispetto al lavoro odierno; anzi, come dicevo sopra, più passa il tempo e più mi rendo conto che è fisicamente più facile stare seduto a una scrivania in ufficio che mandare avanti una casa e la famiglia che ci abita dentro. Mi piacerebbe fare il papà a tempo pieno per poter vedere i miei figli crescere; qualcosa mi dice che invece continuerò a fare lo stesso lavoro (o altro con ancora più responsabilità e ancora meno ore a casa) e quindi i miei figli li vedrò crescere al massimo via Skype o forse nel weekend. Un collega mi raccontava che aveva tentato di impostare la propria famiglia lavorando da solo e lasciando alla compagna cura della casa e della famiglia; poi i soldi non bastavano e così si è messa a lavorare anche la moglie; morale della favola i figli ora non li vede nessuno dei due e li cresce la tata, che a sua volta ha un costo notevole.

Oggi finisce questo 2014 un po’ diverso dagli altri e domani inizia un 2015 che potrebbe comportare cambiamenti sensibili, qualcuno direbbe rivoluzioni, nella mia vita e in quella delle persone cui voglio bene. Temi come quelli accennati in questo post diventeranno cruciali, mischiati con quelli limitrofi come l’organizzazione di un matrimonio, il setup di una casa familiare, la nascita di un figlio. Non è che ho paura, ho sola tanta confusione derivante dal fatto che già ora la mia vita sembra piuttosto piena: come si fa a cambiarla in modo da aggiungere sulla libreria accanto all’ingombrante volume “lavoro” libri molto più importanti relativi alla vita privata? So bene che non sono il primo e non sarò l’ultimo ad affrontare questi temi: tutte le famiglie nella storia del mondo hanno trovato un proprio equilibrio e cercherò anch’io di contribuire a quello della famiglia che potrà nascermi intorno. Metto a futura memoria qui l’annotazione per cui non sono pigro: sono solo fisicamente stanco, già da ora, senza aver ancora mosso un dito su temi extra-lavorativi. Imparerò a (soprav)vivere già nel corso del 2015, spero, per poi raffinare l’arte negli anni successivi.

Consulenza sì o no?

14 Dicembre 2014

Tra le tante strade di cui scrivevo un mese fa alla fine ho scelto di percorrere quella più insistente, andando per la prima volta a fare un colloquio in un’altra società di consulenza, peraltro la nostra peggiore nemica e probabilmente la leader di mercato. O meglio la leader di diversi mini-mercati, visto che il mondo è sempre più frammentato in termini di competenze, industry e tecnologie. Quindi alla fine ognuno si specializza su una o più di queste intersezioni, compresi io e i miei.

Questo ovviamente fa gola a chi sta dall’altra parte del ponte levatoio. Essere bravi nella propria nicchia vuol dire assicurare direttamente alla propria società un fatturato di qualche milione di Euro col proprio team e probabilmente qualche altro indirettamente. Quindi probabilmente sono al livello giusto di seniority per fare la differenza nella super-nicchia e magari anche in quelle limitrofe, come i nostri mi hanno invitato a fare, quasi a mo’ di sfida professionale per il futuro.

Fin qui la parte appariscente di tutta la faccenda. Ma i lettori della Cuccia sanno che questa storia della consulenza mi rode dentro da quando è iniziata proprio dieci anni fa, a dicembre 2004. Negli anni prima tra tesi di laurea e master vari i miei lavori erano sempre stati molto indipendenti e comunque lontani dal concetto di consulenza così strutturata come quella vissuta dopo; ora cosa vuol dire “consulenza” l’ho capito bene, anche se poi ci sono tante sfumature sul mercato.

Il colloquio è stato interessante proprio per capire la “loro”, di sfumatura. Perché una volta c’era la consulenza direzionale e la creatività: loro hanno provato a creare un ibrido delle due, ovviamente calato sul digitale (anche perché purtroppo la comunicazione pubblicitaria tradizionale temo stia morendo). A loro svantaggio va che essendo una società da 300.000 persone non è così facile crearsi un proprio ruolo e una propria identità, specie in confronto all’attuale gruppo da 4.500.

Non mi chiudo la strada perché sono anche curioso di vedere cosa proporranno; male che vada li userò come una clava per chiedere “altro” nel posto in cui sono già. In ogni caso il tarlo rimane: è vero che ormai dopo tanti anni questo lavoro lo faccio a occhi chiusi, ma è davvero quello più adatto a me? Se sì, ha senso continuare a fare carriera, sapendo che diventerà sempre più commerciale? Se no, ha senso guardarsi intorno e cambiare, buttando tutto nel cestino?