Di ritorno a Berbenno di Valtellina

31 Marzo 2015

Ironia della sorte ha voluto che ieri io sia tornato a Berbenno di Valtellina come un anno fa, affrontando peraltro lo stesso patema d’animo su come raggiungerlo (per la cronaca l’anno scorso mi diedero un passaggio, oggi ho preso il taxi). Dopo quel 1° aprile ero tornato dal Prospect il 16 ottobre e poi lo scorso 13 marzo. Ma i miei teneri lettori diranno: chissenefrega? Provo a spiegare perché la faccenda sia di interesse (quasi) pubblico: fondamentalmente in tutte e quattro le occasioni ho ripetuto sempre la stessa poesiola. Questo non sarebbe una novità (fa un po’ parte della vita del venditore) se non fosse che oggi è venuto fuori che chi mi accompagnava aveva iniziato a dire le “sue” ancora prima prima, nei primi mesi del 2013.

Quindi vuol dire che dall’altra parte i manager in circa due anni non hanno ancora preso decisioni sul suo tema, né in un anno sul mio. E si tratta di temi piuttosto rilevanti: il mio impatta sui servizi “digital” del Cliente, il suo sulle interfacce di lavoro quotidiano dello staff commerciale. In entrambi i casi le piattaforme in uso hanno anni e anni e ne sono consci. Parlavo di un interesse (quasi) pubblico sulla faccenda perché stiamo parlando di una società che capitalizza 2 miliardi di Euro in Borsa, in cui i middle manager non prendono decisioni significative e si giustificano per il fatto che i budget di “innovazione” siano piuttosto limitati. E non stiamo certo parlando di innovazione “di frontiera”, ma di puro porting dalla preistoria ai giorni nostri.

Moltiplicate questo tipo di immobilismo per tutte le aziende italiane medio-grandi come questa e vi renderete conto dell’immobilismo dell’economia di primo piano; provate anche a immaginare un approccio simile per chi ha ancora meno risorse come le aziende medio-piccole e potrete rendervi conto di come difficilmente usciremo dal pantano con processi decisionali così lenti. A margine della riunione ci siamo guardati sconsolati dicendo che sì, magari dopo 2 anni è la volta buona, ma probabilmente il gigante partorirà il topolino: nel migliore dei casi si riuscirà a fare un mini-pezzettino di attività e poi speriamo in un bel progetto che mediamente dura un paio di anni. Quindi nel migliore dei casi saranno passati quattro anni dall’esigenza al “go live”.

Si dirà che lavoro in un settore di nicchia e non è detto che l’innovazione delle aziende passi solo dagli investimenti in piattaforme digitali; vero, ma pensate a ragionare allo stesso modo anche sui beni strumentali. Pensate se lo stesso approccio lo tiene un ristorante per rinnovare la cucina o il mobilio in sala; ancora peggio pensate a un’azienda industriale i cui manager non riescono a decidersi a investire nell’acquisire i nuovi macchinari o nella formazione dei dipendenti. Alla fine queste scelte (anzi, queste mancanze di scelte) sono quelle che ci hanno allegramente portato sul bordo del burrone negli scorsi anni; non bastano riforme del lavoro continue, servirebbe fare a tutti noi un bel lavaggio di testa. Perché vale come autocritica, come sempre.

Statistiche caserecce sul mio profilo Facebook

15 Marzo 2015

Qualche giorno fa ho superato i 500 contatti su LinkedIn: considerando che sono un po’ schizzinoso nell’accettare richieste di contatto (penso ci sia sempre implicito un minimo di endorsement nel farlo) non sono pochi. Nonostante questo, se scorro la lista delle possibili persone con cui mettersi in contatto ne ri-scopro sempre. Cosa un po’ diversa da quanto avviene su Facebook. Mettiamola così: non è che i suggerimenti di Facebook siano sbagliati, ma una cosa è recuperare un vecchio contatto lavorativo confidando nell’antica stima reciproca, un’altra è crogiolarsi nel passato delle foto invecchiate dei propri compaesani o voler inserire come “amici” contatti dell’agenda professionale, con cui non c’è nemmeno il pur minino di confidenza, non dico amicizia.

Oggi in uno dei miei noiosissimi viaggi Milano-Sondrio, prima di passare a leggere un libro regalatomi da Eva, ho approfittato degli ultimi minuti di batteria del PC per fare un po’ di statistiche maccheroniche su chi siano gli attuali “amici” di Facebook. Già il fatto stesso di scorrere i circa 290 nomi è stato un esercizio interessante per rinfrescare la memoria e rivedere facce che nonostante questo “collegamento” in realtà poi non compaiono mai tra gli aggiornamenti del social network. Questa potrebbe essere una prima divisione di massima (arrotondando):

  • Persone conosciute in ambienti di formazione (scuola superiore, università, master vari): circa 80
  • Persone conosciute in ambito lavorativo (colleghi, clienti, collaboratori, parenti di colleghi): circa 120
  • Persone conosciute su Internet: circa 40
  • Parenti/parenti di parenti: una decina
  • Persone conosciute offline (esclusi i raggruppamenti precedenti): circa 40.

I “circa” sono dovuti al criterio non esattamente scientifico: sulla definizione di “parente” si potrebbe discutere e alcuni contatti incrociati in ambiente lavorativo poi sono diventati amici “veri” a furia di frequentarli su Internet; alcuni compagni di master sono diventati colleghi; tra le persone conosciute offline i compagni di scuola di elementari e medie, pochi quelli non di Tiriolo. La classificazione stessa peraltro dà ragione a Facebook: se quasi la metà dei contatti ha origine nel mondo lavorativo, può aver senso consigliarmi di aggiungere persone della stessa società o “rubate” dal mio smartphone. Forse un po’ più sorprendente che i contatti Internettari siano “appena” una quarantina; in questo la cernita costante probabilmente ha dato i suoi frutti.

Un numero interessante è quello degli stranieri: visto che sulla mia timeline sono frequentissimi, pensavo fossero tanti. In realtà sono una trentina, quindi più o meno uno su dieci. La maggior parte risalgono ai master a Torino e Nizza, che erano per loro natura fucine di amicizie internazionali. Molti di loro mi mancano un po’, ma come dicevo sono anche tra quelli che “leggo” di più. Il dato più sorprendente è forse quello delle relazioni tra italiani e stranieri: ne ho contate una quindicina, di cui la maggior parte con persone africane o giapponesi. Non saprei come interpretare questo 6%: sono quasi tutte persone sposate, la maggior parte sono uomini, molti (ma non tutti) condividono con me una certa timidezza, ma magari è una coincidenza.