Ironia della sorte ha voluto che ieri io sia tornato a Berbenno di Valtellina come un anno fa, affrontando peraltro lo stesso patema d’animo su come raggiungerlo (per la cronaca l’anno scorso mi diedero un passaggio, oggi ho preso il taxi). Dopo quel 1° aprile ero tornato dal Prospect il 16 ottobre e poi lo scorso 13 marzo. Ma i miei teneri lettori diranno: chissenefrega? Provo a spiegare perché la faccenda sia di interesse (quasi) pubblico: fondamentalmente in tutte e quattro le occasioni ho ripetuto sempre la stessa poesiola. Questo non sarebbe una novità (fa un po’ parte della vita del venditore) se non fosse che oggi è venuto fuori che chi mi accompagnava aveva iniziato a dire le “sue” ancora prima prima, nei primi mesi del 2013.

Quindi vuol dire che dall’altra parte i manager in circa due anni non hanno ancora preso decisioni sul suo tema, né in un anno sul mio. E si tratta di temi piuttosto rilevanti: il mio impatta sui servizi “digital” del Cliente, il suo sulle interfacce di lavoro quotidiano dello staff commerciale. In entrambi i casi le piattaforme in uso hanno anni e anni e ne sono consci. Parlavo di un interesse (quasi) pubblico sulla faccenda perché stiamo parlando di una società che capitalizza 2 miliardi di Euro in Borsa, in cui i middle manager non prendono decisioni significative e si giustificano per il fatto che i budget di “innovazione” siano piuttosto limitati. E non stiamo certo parlando di innovazione “di frontiera”, ma di puro porting dalla preistoria ai giorni nostri.

Moltiplicate questo tipo di immobilismo per tutte le aziende italiane medio-grandi come questa e vi renderete conto dell’immobilismo dell’economia di primo piano; provate anche a immaginare un approccio simile per chi ha ancora meno risorse come le aziende medio-piccole e potrete rendervi conto di come difficilmente usciremo dal pantano con processi decisionali così lenti. A margine della riunione ci siamo guardati sconsolati dicendo che sì, magari dopo 2 anni è la volta buona, ma probabilmente il gigante partorirà il topolino: nel migliore dei casi si riuscirà a fare un mini-pezzettino di attività e poi speriamo in un bel progetto che mediamente dura un paio di anni. Quindi nel migliore dei casi saranno passati quattro anni dall’esigenza al “go live”.

Si dirà che lavoro in un settore di nicchia e non è detto che l’innovazione delle aziende passi solo dagli investimenti in piattaforme digitali; vero, ma pensate a ragionare allo stesso modo anche sui beni strumentali. Pensate se lo stesso approccio lo tiene un ristorante per rinnovare la cucina o il mobilio in sala; ancora peggio pensate a un’azienda industriale i cui manager non riescono a decidersi a investire nell’acquisire i nuovi macchinari o nella formazione dei dipendenti. Alla fine queste scelte (anzi, queste mancanze di scelte) sono quelle che ci hanno allegramente portato sul bordo del burrone negli scorsi anni; non bastano riforme del lavoro continue, servirebbe fare a tutti noi un bel lavaggio di testa. Perché vale come autocritica, come sempre.



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