La ragion d’essere della Consulenza

10 Febbraio 2005

Dopo le mille vicessitudini del 2004, questo nuovo anno prosegue nella tranquillità del mio lavoro a Roma: sebbene il contratto finisca a marzo 2005, sono ottimista sulla continuazione dello stesso. Spero alle stesse condizioni economiche, che mi piacciono e mi rasserenano. Peccato che tra intoppi burocratici ed amministrativi i soldi non arrivino, ma la speranza è l’ultima a morire (prima muoio io di fame).

Ciò che mi turba un po’, invece, è lo stile di vita. Sveglia all’alba per essere in ufficio (dal Cliente) alle 9.30 AM, per poi uscire dallo stesso edificio alle 9.30 PM, salvo una brevissima pausa pranzo (del tutto non regolata), consistente in una pizzetta o in un piatto caldo nei fin troppo centrali (e turistici) bar di Roma. Niente di nuovo sotto il sole, considerando che faccio il consulente ormai da diversi anni. Ciò che cambia, semmai, è il livello di autonomia: stavolta lavoro in un team in cui non ho la parola ultima, come negli anni scorsi.

Il dubbio di questi giorni potrei esprimerlo così: “Che senso ha, essere consulenti?” Per alcuni, è un modo alternativo di combattere la noia: plausibilmente, chi lavora per una grande società  di consulenza cambia spesso lavoro, cambiando i clienti della Società e probabilmente anche il tipo di attività , di impegno e di competenze richiesti. A volte è incredibile quanti “lavori” diversi si possono cambiare nel giro di poche settimane, riciclandosi “esperti” di cose che magari non si è mai visto prima. Tutto ciò è anche stimolante, se si vuole.

Per altri, il periodo passato nella consulenza dovrebbe essere una sorta di trampolino di lancio verso una carriera manageriale. Prima i sacrifici di un Master, poi i sacrifici da consulente, per sperare di poter un giorno “godere” della vita sacrificata del manager, senza orari e senza tempo libero. Problemino di fondo del ragionamento è che non tutte le società di consulenza sono McKinsey, così come non tutte le Business School sono Harvard. Prendere un Master in un Ateneo poco “nobile” e far carriera in una consulting firm poco nota tutto è tranne che un trampolino. C’è anche da dire che lavorare in una grande società di consulenza non è di per sé garanzia di qualità di vità e di lavoro.

Un dubbio un po’ più d’ampio respiro (oggetto anche di un’accesa discussione ieri con dei colleghi) è poi sulla stessa ragion d’essere della Consulenza. Per i Clienti, è spesso un body rental che, in nazioni in cui le assunzioni sono temute come la peste (vedi l’Italia), permette di avere personale altamente qualificato “affittandolo” un tanto al giorno. Peccato che, al consulente di turno, di questo “tanto” arrivi veramente poco: le briciole corrispondono ad uno stipendio “normale”, mentre i prezzi folli che i Clienti arrivano a pagare contengono il guadagno per le firm e gli stipendi dei livelli più alti, soprattutto dei cosiddetti Partner.

Ma un “bravo” consulente, a questo punto, come dovrebbe comportarsi? Come un dipendente affittato dal Cliente (ma allora sarebbe una sorta di “interinale di lusso”) o come un professionista prestato alla causa? Guardare la barca che va alla deriva accompagnandola con canti di gloria o saltarci su per aiutare l’equipaggio ad uscire dall’impaccio? Adeguarsi all’andazzo generale o muovere le acque? Dare sempre il meglio o dare sempre il minimo indispensabile?

Su questi assi si muove, spesso, la mia divergenza con altri colleghi, collaboratori ed amici vari. Abituato ai micro-mondi di Global Verve, sono abituato a spezzarmi di lavoro, guidare i miei collaboratori a dare il massimo e tutti insieme raggiungere un obiettivo ben definito: rendere così autonomo il Cliente da non aver più bisogno di noi. Obiettivo “suicida”, se vogliamo, ma eticamente chiaro: ci si paga per risolvere i problemi, come ci si rivolge ad un medico. Il paziente lo si deve curare sino in fondo, non tenergli alto il morale in attesa che l’entropia si riduca da sola (in barba a tutti i principi della fisica e del buon senso) e nel frattempo sia comunque abbastanza elevata da garantire una collaborazione sempre più lunga.

Mi dispiaccio sempre un po’, dunque, quando vedo che non tutti seguono questo tipo di filosofia. Tutti pretendono che la giornata minima sia di (almeno) 12 ore lavorative, ma in quelle ore pochi danno il massimo. Pochi cercano davvero soluzioni. Molti, invece, fanno da “supporto” alle attività  quotidiane del Cliente, osservandone con poca attenzione i reali problemi e assecondandone i deliri. Per me, semplicemente, questo non è essere consulente.