Passaggio di testimone

31 Luglio 2013

Una decina di giorni fa è morto uno zio di mia madre. Una persona buona e generosa, di quelle che difficilmente possono stare antipatiche a qualcuno. Mi è dispiaciuto e come al solito essendo dall’altra parte d’Italia non ho potuto partecipare ai funerali.

Qualche giorno fa invece è nata la figlioletta di mia cugina: come già era successo per il matrimonio lo scorso settembre, ho voluto essere presente a tutti i costi perché lo ritenevo un passaggio importante non solo per lei, ma per tutta la famiglia.

È la prima esponente di una nuova generazione e segna il passaggio la trasformazione dei genitori in nonni, dei fratelli in zii e così via. Non è solo un fattore emotivo: è la prima nativa digitale in famiglia, non potrà che crescere diversamente da noi.

Appena l’ho vista mi sono emozionato, è stato bello pensare che quel fagottino ha tutta una vita davanti, con tutte le scelte e le possibili strade da imboccare. E che diventerà un membro importante, cruciale, della mia piccola famiglia sparpagliata.

Negli scorsi giorni ho osservato con un po’ di mal di pancia l’entusiasmo internazionale per la nascita dell’erede al trono del Regno Unito; poi ho capito che in qualche modo era un po’ la mia allegria formato famiglia amplificata esponenzialmente.

La nascita di un bebè in qualche modo ti fa pensare che le cose andranno avanti a lungo, che il mondo intorno potrà crescere ancora tanto grazie alla sua voglia di scoprirlo. E che magari rimarrà un piccolo ricordo di te, anche quando non ci sarai più.

Outdoor, competizione e militari

18 Luglio 2013

Oggi ho passato la mia giornata lavorativa a togliere lische dai salmoni, mettere tranci nelle teglie e informarle/sfornarle. Venerdì scorso invece ero impegnato a cercare cibarie in un bosco, a tirare con l’arco, a calarmi imbracato come un salame da un dirupo. Qualche mese fa era stato il momento del golf, prima ancora c’erano stati la caccia al tesoro medievale e la scorrazzata in quad. Non è che ho cambiato lavoro, anzi: a giudicare dal fatto che ormai non manchi evento aziendale senza il suo momento pseudo-sportivo, si direbbe che l’experiential training sia ormai parte integrante dell’attività formativa. In verità, al netto di qualche sparuto corso di inglese, si direbbe l’unica: mi verrebbero quasi da rimpiangere i vecchi corsi sulla leadership di moda qualche anno fa.

Mi sono risparmiato un simil-triathlon lo scorso anno, la guerra con la pittura nella campagna veneta, i gatti delle nevi tra le Alpi piemontesi. Non mancheranno ulteriori occasioni nei prossimi anni, con attese impazienti di scoprire di volta in volta l’imminente tortura. Già, perché regola vuole che per prepararci alle improvvisate della vita, si debba scoprire all’ultimo momento la prova. La quasi totalità di queste attività si svolge outdoor, in luoghi che probabilmente sarebbe bello visitare come turisti, passeggiando serenamente per i sentieri. E invece no, bisogna essere super-competitivi e, da soli o più spesso in team, ci si deve scatenare sperando di provare il senso dell’adrenalina che la vita quotidiana ci rifiuta. O più probabilmente il senso della noia velata di angoscia, nel mio caso. Sarò il solo?

Non ho fatto il servizio militare, dove outdoor e bullismo (che poi è la faccia oscura dell’iper-competitività) la fanno da padrona. Al contrario, ho scelto una vita personale e professionale contraddistinta dal tentativo di utilizzare il cervello più del fisico, la serenità più dell’ansia da prestazione. Quindi mi sento piuttosto fuori posto in queste olimpiadi fatte da gente come me, con la panza che esce dalla maglietta e lo smartphone sempre in mano. Il che ovviamente dovrebbe essere il motivo per cui veniamo sottoposti a queste iniziative: venire spiazzati per dare il meglio, per imparare come lavorare meglio insieme ai colleghi per risolvere problemi comuni. Anche se poi come al solito prevale l’individuo e quindi i più allenati si pavoneggiano con l’istruttore di turno dimenticandosi di chi è meno in esercizio nel gruppo. Alla faccia del teamworking, del far fronte al nemico comune, del costruire insieme.

Alla fine oggi mi sono divertito, anche se sarei stato decisamente più contento se fosse mancata la competizione, se ci fosse stato un amabile clima amichevole: l’obiettivo di cucinare il pranzo per noi stessi sarebbe stato raggiunto comunque, i team si sarebbero formati allo stesso modo ma magari avrebbero collaborato di più con gli altri, invece di ostacolarli. Io sono sempre un po’ allergico alle regole e in tal senso non mi fanno impazzire questi copioni di pièce teatrali in cui bisogna essere virili e smargiassi. Vorrei essere semplicemente me stesso, convinto che è vero che le avversità fanno crescere e maturare, ma bastano già quelle della vita privata e professionale. Se proprio il testosterone arrivasse a picchiarmi in testa, mi iscriverei in palestra, ma prima dovrei vincere la competizione più dura, quella con me stesso. Forse allora avrei voglia di competere con altri, in campagna e non.