Al pronto soccorso (senza urgenza)

31 Gennaio 2016

La mia eterna condizione di profugo nel mio stesso Paese mi ha portato negli anni a “testare” qualche pronto soccorso qua e là: a Padova, Torino, Catanzaro e Bergamo. Ero stato anche a Bologna nel mio primissimo viaggio da solo, ormai quasi 20 anni fa; grazie a Dio sono riuscito a non provare Roma, Reggio Emilia e Genova. A Milano ero stato una sola volta per una cosa un po’ seria, poi sono andato al Niguarda negli scorsi giorni ed è stato un disastro. Come accennavo nel post precedente, sono state settimane ricche di problemi di salute: dopo il viaggio di ritorno dall’India con la febbre alta (il mio vicino di posto avrà apprezzato) mi era sembrata una buona idea farmi dare un’occhiata. E invece no: nonostante il codice verde (che non è grave, ovviamente, ma non è nemmeno il codice bianco che implicitamente indica il non dover nemmeno essere là) ho passato oltre 11 ore con una mascherina in luoghi fatiscenti.

Contrariamente alla scintillante zona dei negozi (ma cosa diavolo…), l’area pronto soccorso dello storico ospedale milanese è piuttosto abbandonata: la fila avviene per la maggior parte nei corridoi ed è veramente infinita. Sono passate 5 ore dal mio ingresso alla visita col dottore (anzi, con l’infermiere, visto che la dottoressa si è limitata a guardarmi a distanza e prescrivermi gli esami del sangue); poi 5 ore e 58 per essere richiamato a commentare i risultati. Direte: ma che precisino che conta i minuti. In realtà la cosa è sospetta: c’è una regola che dice che oltre le 6 ore di “osservazione” (definita come il periodo successivo alla prima visita) non è dovuto il ticket di 25 Euro. Alla fine io non l’ho pagato perché ritenuto sufficientemente “grave” da meritare un qualche riconoscimento di urgenza; ma mi dicono i colleghi che non è infrequente poi arrivi un sollecito di pagamento a casa per i casi ritenuti “declassabili”.

Pochi giorni prima avevo accompagnato Eva in un ospedale di Bangalore: triage casalingo alla cassa, 10 rupie per la visita “generica” e meno di mezz’ora di attesa. Il luogo era altrettanto cadente, ma mi dice Eva che ci sono ospedali ben più moderni; va bene così, 10 rupie sono un prezzo accettabile anche per i più poveri che hanno così accesso a un consulto medico. Le medicine costano un po’ meno dell’Italia, quindi capisco che possano sembrare care. D’altra parte le medicine sembrano care anche a me in Italia. Non avendo medico di base in loco, ogni volta devo pagare non solo gli OTC, ma anche antibiotici e dintorni: mi domando il perché, visto che sono iscritto al SSN. Pare che in alcuni casi come non residenti si possa andare alla guardia medica per “soli” 15 Euro; ma ovviamente anche là a Milano fila apocalittica, poi appunto mi domando se il beneficio sia uscire con una ricetta che renda “mutuabili” i farmaci.

Devo comunque annotare un’altra esperienza, decisamente più positiva: qualche giorno dopo la tragica giornata a Cà Granda, sono andato all’Ospedale dell’Angelo di Mestre. In questo caso meritavo un codice bianco, ma d’altra parte dopo 6 giorni di diarrea un medico dovevo incontrarlo: ho pagato i miei 25 Euro (con carta di credito) e in 3 ore ho avuto una prima visita, le analisi del sangue e un secondo incontro di chiusura col medico, un cinquantenne preparato (contrariamente alle ragazzette distratte del Niguarda). Poi come al solito ho pagato i miei farmaci, visto che sono un cittadino di serie B: troppo “ricco” per avere esenzioni, lontano dal luogo di residenza, con una polizza sanitaria privata che costa centinaia di Euro l’anno ma copre giusto qualche esame qua e là. Spero che in questo 2016 possa trovare una casa in cui stabilirmi e in cui spostare la residenza, giusto per ottenere qualche diritto anch’io.

Inizio il 2016 col ritorno dall’India

15 Gennaio 2016

Rileggo i commenti scritti al ritorno dal mio viaggio precedente in India e penso che quest’ultima esperienza è stata l’amplificazione di quella: potrei probabilmente riscrivere un post simile, ove tutto è più “in grande”. Gli Indiani sono sempre di più, Tata è sempre più enorme e pervasiva, l’igiene è sempre più una teoria tutta loro, la distanza tra ricchi e poveri è sempre più abissale, ho provato tanti cibi in più, ma il sapore…

Devo dire che stavolta ho visto dei luoghi turisticamente perfetti: l’India merita davvero un viaggio che si sia appassionati di architettura, religione, arte, cultura, storia, artigianato e molte altre cose. Le radici arabeggianti che avevo intravisto a Delhi sono esplose in giro tra Agra e Jaipur: il Taj Mahal è la punta dell’iceberg di una serie di capolavori che raccontano una terra complessa e affascinante, oggi come in prospettiva storica.

Grazie a una Sim Airtel locale acquistata da Eva, ho potuto utilizzare lo smartphone per muoverci anche in città complesse come Delhi, oltre che mantenere un minimo di contatto con la famiglia. Ho avuto la possibilità di passare anche un paio di giorni con la famiglia di Eva e anche questo è un altro aspetto positivo del viaggio: mi trovo bene con loro, che sono persone gentili e accoglienti nonostante le naturali differenze.

Il problema principale di questa decina di giorni di vacanza (periodo direi abbastanza lungo per i miei standard) è stata la salute: messi a tacere i denti con botte di antibiotici, ho passato notti e giorni con tosse, febbre e starnuti, accompagnando anche Eva in ospedale per capire il senso di sintomi analoghi. Al ritorno in Italia una misteriosa intossicazione alimentare all’apparenza presa a Mogliano Veneto, chissà se correlata.

Alla fine di questa prima settimana di lavoro il ricordo del viaggio è già sfumato e mi guardo intorno un po’ spaesato; la vita a Milano mi sembra orribile quanto e più che nelle megalopoli indiane e io tutto sommato non mi sento qui meno spaesato che laggiù. Dopo il terribile 2015 mi aspetta un 2016 ricco di sfide, forse più personali che professionali: vorrei che fosse anche un anno di serenità, per me ma anche per Eva e la mia famiglia.